C’è una nicchia nel paese dove sono nato. Dentro c’è un Cristo a braccia spalancate. Intorno alla nicchia c’è un filare di alberi che perdono le foglie in inverno, e le rimettono in primavera. Mi sono sempre sentito “tornato” guardando quelle braccia. Ho sempre avuto un muto dialogo con il mio paese, ogni volta che passavo davanti quella nicchia sentivo “bentornato” echeggiare tra la voce delle campane e quella dei latrati solitari, forse due tra i suoni più familiari per chi viene dalla campagna. Mi sono poi sempre sorpreso di vedere quegli alberi cambiare aspetto in modo così netto: d’inverno spogli e nudi, in primavera rigogliosi e pieni di vita.
Quest’anno ho avuto una piccola sorpresa, dolce amara: la nicchia non c’è più. Non c’è più neppure il Cristo a braccia aperte a dirmi bentornato, come non ci sei più tu. Non ci sono più i carciofi sulla brace, te che affumichi tutto lo sparuto vicinato, io che spazzo le foglie dal viale mentre tu mi gridi di mettermi la giacca, a Pasqua c’è sempre stato quel vento strano, dal sapore ultraterreno, come se Dio stesse ancora soffrendo per quel che abbiamo fatto al suo unico figlio. E mentre penso a quella nicchia, avvolgente come le tue braccia, le lacrime iniziano a scendere e alzo le sopracciglia sperando di imbrigliarle ma loro scendono lo stesso, allora mi lascio andare e ripenso a tutti i nostri momenti belli, a quando mi portavi all’autogrill a festeggiare e a me non pareva vero, di poter prendere da solo tutti i piatti che volevo, mentre di solito il ristorante era un sogno tanto lontano quanto lo erano l’America, la route 66, o vedere sorgere il mondo seduto sul bordo della Luna. E quando fingevi di scordarti diecimilalire sopra il letto, ed io mi fiondavo come un’aquila, tu protestavi ridacchiando, io fuggivo via veloce come il vento. Quando ho raccattato quel randagio e tu non hai fiatato, ma gli hai messo davanti una ciotola e gli hai detto “carne qui non ce ne sta per noi, eh, figuriamoci per te”.
Quando mi mettevi le carte sotto l’ascella, dopo avermi rifilato l’ennesima batosta a scopa. Ma quello che è più importante è tutto quello che non ho mai visto. Quello che tu non mi hai voluto mai far vedere. Le tue preoccupazioni, i soldi sempre troppo pochi, le bollette, i sigilli al contatore, i creditori, tutta quella tua paura sul mio futuro. Non c’è traccia di tutto questo nei miei ricordi, perché m’hai fatto vivere in una nuvola d’ovatta, e quanto te ne sono grato per tutto questo. Per avermi fatto vivere un’infanzia come dovrebbe essere per tutti: spensierata, all’insegna esclusiva del gioco e della scoperta. Mi hai sollevato come un razzo e mi hai portato sul bordo dell’Universo, poi ti sei staccata, come ogni buon razzo, e ti sei bruciata nell’aria come una stella.
Ma la tua scia non s’è ancora spenta, te lo giuro, non s’è ancora spenta.
Buona Pasqua.
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